Editoriale del 5 gen 2012.
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LUCA RICOLFI
Lo so, ci sono cose che oggi non si possono dire. Non si può parlare dell'articolo 18, non si può dire quel che ha detto Grillo, non ci si può sottrarre alla guerra santa contro gli evasori e gli speculatori, non si possono difendere i ricchi (un clima così pesante e antiliberale da indurre Alesina e Giavazzi a ricordare che la ricchezza non è una colpa). Abbiamo bisogno di certezze e di capri espiatori. La certezza di non perdere quel che abbiamo. I capri espiatori su cui scaricare ogni responsabilità per i tempi duri che viviamo.
Così, una plumbea nuvola di cecità e di conformismo sta lentamente avvolgendo un po’ tutto e tutti.
Il governo sta finalmente, faticosamente e meritoriamente aprendo il dossier delle liberalizzazioni, ma il clima che si respira è di prudenza e di sospetto, specie in materia di mercato del lavoro. Gli altolà e gli avvertimenti scattano automatici, non per quel che uno ha fatto effettivamente, ma già solo per quello che potrebbe aver pensato, o avere in animo di pensare (vedi quel che è successo al ministro Elsa Fornero, rea di aver osato dire che si doveva parlare di mercato del lavoro «senza tabù»).
In un clima siffatto, io vedo il pericolo che, nel dibattito pubblico dei prossimi mesi, si mettano da parte alcuni dati di fondo, che sono cruciali per prendere decisioni sagge, ma appaiono urticanti o «politically taboo» a quasi tutti i soggetti in campo. Quali dati? Il primo dato è che la pressione fiscale sull'economia regolare è la più alta del mondo sviluppato (intorno al 60%), e così il livello di tassazione sulle imprese, il cosiddetto Total Tax Rate (68.6%). Questo è un handicap di fondo dell'Italia, che è stato ulteriormente aggravato dalle manovre finanziarie di Berlusconi, e in misura ancora maggiore da quella di Monti. Questo livello abnorme di tassazione si accompagna da sempre a norme vessatorie nei confronti di qualsiasi violazione (anche solo formale, o di entità irrisoria) delle regole fiscali, per non parlare dei comportamenti arroganti, intimidatori, o semplicemente umilianti degli emissari del fisco, che ovviamente non sono la regola ma di cui esistono purtroppo innumerevoli testimonianze, talora drammatiche e commoventi. Mi spiace doverlo dire, ma mi sono convinto che oggi in Italia un sentimento di paura verso l'Amministrazione pubblica sia ampiamente giustificato anche quando non si sia commesso alcun errore, reato o violazione. E tutto mi fa pensare che, affamato da decenni di spesa pubblica in deficit, lo Stato stia in questi anni accentuando il suo volto rapace e intimidatorio.
Il secondo dato di fondo è la strabica selettività della repressione dell'evasione. Ci sono intere zone del Paese in cui quasi tutto è in nero, si sa perfettamente dove si annidano gli abusi più clamorosi (compreso il caporalato e varie forme di sfruttamento del lavoro degli immigrati che ricordano i tempi della schiavitù), ma si preferisce chiudere ipocritamente un occhio, concentrando l'azione sulle porzioni del Paese in cui l'evasione c'è, ma è molto più contenuta. Pur di salvare il principio astratto che il lavoro deve essere pagato decentemente e iperprotetto, Stato e sindacati tollerano di buon grado che in un quarto del territorio nazionale si possa operare in modo del tutto irregolare, non solo sul versante dei salari ma su quasi tutto il resto (dal mancato pagamento del canone Rai alla violazione di ogni norma igienica, di sicurezza, antinfortunistica, etc.). Il fatto è che se volesse intervenire contro l'illegalità, lo Stato dovrebbe militarizzare circa un quarto del territorio nazionale, e distruggere un paio di milioni di posti di lavoro, che si reggono sui bassi salari.
C'è un terzo dato di fondo, che mi pare fondamentale ora che si sta per aprire lo spinoso capitolo del mercato del lavoro: da un paio di anni l'Italia sta riducendo la sua base produttiva. Fallimenti, chiusure volontarie di attività, bassi investimenti, distruzione di posti di lavoro, si stanno susseguendo senza interruzione dal 2008. Un po' dipende da un fatto nuovissimo, e cioè che questa crisi è, dal 1945, la prima in cui si prende in considerazione non solo l'eventualità di un double dip (doppia recessione, la prima nel 2009, la seconda nel 2012), ma anche l'ipotesi che la crescita non tornerà mai più, come ha già tristemente sperimentato il Giappone negli ultimi due decenni. In queste condizioni a molti pare inutile resistere in attesa di una ripresa che forse non ci sarà né l'anno prossimo né mai. Un po', però, dipende anche da un altro dato che ci si rifiuta di vedere, e cioè che lavorare e produrre in Italia sta diventando sempre più proibitivo sul piano dei costi di produzione.
Quando dico costi di produzione, però, non intendo solo le voci che sono al centro della prossima trattativa governo-Confindustria-sindacati. E' chiaro che salari e profitti sono troppo tassati, è chiaro che le imprese medio-grandi hanno troppi vincoli, è chiaro che in Italia si fa troppo poca ricerca, è chiaro che c'è troppo poca concorrenza sul mercato interno, è chiaro che bisogna aumentare la produttività del lavoro. E tuttavia, attenzione, non possiamo esagerare con la colpevolizzazione dei produttori, siano essi le imprese (cui si rimprovera cattiva organizzazione e scarsa innovazione), i lavoratori autonomi (cui si rimprovera di evadere le tasse), o i lavoratori dipendenti (cui si rimprovera di non essere abbastanza produttivi). Come tutti, vedo anch'io diversi furbi e farabutti che evadono spudoratamente il fisco, ma sempre più frequentemente mi capita di incontrare persone per bene, che gestiscono in modo efficiente un'attività, ma si trovano ormai di fronte al dilemma se chiudere o «fare del nero», e per lo più - proprio perché sono persone oneste - scelgono di chiudere.
Il tasso di occupazione, la produttività e la competitività non dipendono solo dai rapporti fra capitale e lavoro, come sembra suggerire l'attuale enfasi sulle relazioni industriali, ma anche da alcune fondamentali condizioni esterne all'impresa: il costo dell'energia, il costo del credito, i tempi di pagamento della Pubblica amministrazione, il costo degli adempimenti burocratico-fiscali, l'efficienza della giustizia civile. E' ingenuo pensare che l'operaio tedesco, che guadagna di più di quello italiano, sia più produttivo essenzialmente perché più stakanovista o meglio attrezzato dal suo datore di lavoro. Il valore aggiunto di un'impresa è la differenza fra il valore della sua produzione e i suoi costi, e lo svantaggio dell'Italia su questi ultimi è abissale. Fatti 100 i costi unitari dei Paesi a noi più comparabili (Germania, Francia, Regno Unito, Spagna), i costi dell'Italia sono circa 120 per la benzina, 170 per il gasolio, 250 per l'energia elettrica, 300 per i tempi di pagamento della Pubblica amministrazione, 400 per il rispetto dei contratti (senza contare gli ulteriori aggravi prodotti dalle recenti manovre «salva Italia»).
Se poi a tutto questo aggiungiamo la tassazione più pesante del mondo sviluppato, la rigidità del nostro mercato del lavoro regolare, l'enorme prelievo sul reddito e sulla ricchezza operato con le ultime manovre, il quadro si capovolge: la domanda non è più perché l'Italia non cresce, ma perché i produttori non hanno ancora gettato la spugna. Da questo punto di vista i governi che si sono succeduti negli ultimi anni mi paiono tutti molto simili. Sotto la pressione dei mercati, non hanno mancato di chiederci dei sacrifici, per «rimettere a posto i conti pubblici». Ma ben poco hanno fatto per abbassare in modo apprezzabile i costi di chi produce ricchezza, quasi a lasciar intendere che il problema della produttività riguardi essenzialmente le parti sociali. Temo sia stato un errore, e che la chiusura di tanti negozi, attività, imprese, che osserviamo così spesso oggi nelle nostre città, ne sia l'amara conseguenza.
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